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(un) common thoughts _ Dialogo A.De Pascale/F.Mazzonelli

nel catalogo  (un) common days Paolo Maria Deanesi Edizioni _ 2011

"In passato abbiamo sempre dato per scontato che il mondo esterno rappresentasse la realtà, per quanto confusa o incerta, e che il mondo interno della mente, col suo contenuto di sogni, speranze, aspirazioni, rappresentasse il regno della fantasia e dell’immaginazione. Ora, anche questi ruoli mi sembrano essersi capovolti.(…) La classica distinzione freudiana tra contenuto latente e contenuto manifesto del sogno va ora applicata al mondo esterno, alla cosiddetta realtà"  (J.Ballard _ Crash _ introduzione ) 

F.M. Vorrei iniziare il nostro dialogo cercando di capire come termini quali metamorfosi e reversibilità si inseriscano nel tuo lavoro, non solo per ciò che riguarda il dato più manifesto, quello visivo (l'opera compiuta così come si presenta a noi spettatori), ma anche rispetto alla dinamica progettuale che lo precede. In un tuo testo scrivi che "il procedere della non arte verso la sfera dell'unicità (ready made) o, viceversa, dell'arte verso la serialità (pop art), ha sempre avuto ai miei occhi un valore sentimentale piuttosto che concettuale" . Ecco vorrei mi parlassi anche di questo "valore sentimentale" che determina il tuo avvicinamento al reale, al quotidiano.

A.D.P. Contravvenendo alla “normativa vigente”, ho sempre percepito i ready made come una grande favola, una bella storia a lieto fine. Un orinatoio che ce la fa a diventare Fountain, ad entrare nei musei e nei libri d’arte, mi appariva, giovane sottoproletario della provincia napoletana anni settanta, una promessa di affrancamento, metafora di mobilità sociale (per non parlare dei Brillo Box, che riuscivano a fare lo stesso percorso anche solo rimanendo fedeli a se stessi). Prima di ogni implicazione di ordine linguistico o di alchimie concettuali, l’arte contemporanea mi evocava da subito orizzonti in trasformazione, sentimenti di apertura e di inclusione, di reversibilità  possibile di ogni gerarchia, schiudendo ai miei occhi derive narrative piuttosto che assertive. 

Nell’uso corrente, sentimentale ha sempre un’accezione molto negativa, un termine scivoloso, spesso confuso con la sua degenerazione (sentimentalismo) e in forzata opposizione al versante intellettuale. Per me è sempre stato il ripristino di un'urgenza, necessità di assenso emotivo al reale e, nella prassi quotidiana: intreccio, interdipendenza non gerarchica fra azioni ideative e manuali, un modo di conoscenza che non separa il gesto fisico dal pensiero ed inserisce il fare in un processo mentale effettivo. “Mettere mano” nel dialetto napoletano ha una ricchezza di senso che va al di là del suo valore denotativo, un modo di dire che mi sembra restituisca continuità all’abituale distanza fra operazioni mentali e sentimentali, analitiche e narrative, fino a rendere fluida e  colmabile la distanza fra ideazione e messa in forma, come se il mettere mano, anche come procedimento ideativo, potesse restituire una misura superiore della semplice somma dei due fattori. Anche se chiaramente mutuata dal gergo del lavoro materiale, la dizione “mettere mano” viene utilizzata anche per dare inizio a operazioni meno fisiche: si mette mano ogni volta che c’è un inizio. 

Non sono capace di dare seguito ad un’intuizione se non mettendo fisicamente mano. È la realtà del fare che mi aiuta a tirare fuori l’idea, il senso dell’opera, anche quando non si tratta di pittura o disegno ma di installazioni o campionamenti sonori. Non mi è mai importato molto se questa modalità fosse un bene o un male, se fosse più o meno qualificante dal punto di visto dell’autorizzazione teorica, ho scoperto invece, a posteriori, che questo modo di trattare le immagini ha una risonanza profonda nella mia memoria; da piccolissimo, senza sapere né leggere né scrivere, passavo interi pomeriggi a copiare pagine e pagine da libri. Erano lettere quindi le prime immagini che ho copiato, immagini di parole di cui non conoscevo né il suono né il significato (non avevo più di quattro anni) ma riuscivo a farle mie per analogia visiva: disegnandole. 

La declinazione dei supporti è stata la mia pratica concreta della metamorfosi, una costante processuale nel mio lavoro troppo spesso trascurata, che invece rivela, anche a distanza, una valenza simbolica molto importante e significativa in se. Opportunamente trattatati: tele, telai, fogli da disegno o da acquerello sono diventati a mano a mano, direttamente il mezzo con cui  ri-costruire anche le sembianza fisiche dell’oggetto rappresentato. “Quadri che prendono corpo” scrivevo, una specie di post-produzione che concretizzava il senso di colpa della pittura (illusionistica, retinica) mimetizzandola di fatto dentro interfacce più contemporanea: packaging, shopping bag, grafica pubblicitaria, cassette della frutta. ecc 

La messa in forma di un’inadeguatezza dunque, che nello sforzo di colmare la distanza produce "l’effetto Zelig” di un medium, la pittura, che scavalcata ed emarginata da un secolo di modernità. e da medium più veloci e seducenti, ritorna ogni volta reinventata e rafforzata proprio dalla sua debolezza, mai dalla nostalgia (almeno nelle sue versioni più autoconsapevoli). Il procedimento con cui la  pittura, tentando di farsi dimenticare come tale, ingloba e si mimetizza nel non specifico (inducendo una degenerazione nei rispettivi statuti comunicativi), diventa il vero soggetto della rappresentazione, la narrazione sottesa agli incidenti visivi verificabili nel lavoro finito. 

F.M. Si, la pittura “ritorna”, ma forse non ha nemmeno bisogno di ritornare, semplicemente, ma per una dinamica affatto semplice e non esauribile, continua la sua ricerca. Finchè il modello può essere visto in maniera diversa, la definizione non è mai conclusa, mai terminata, e i pittori continueranno a differenziarsi tra loro pur dipingendo gli stessi oggetti. Il problema è sempre il “come”, secondo quale percorso quel modello rientra nel processo pittorico; se penso in quanti modi ho visto dipinto un vaso di fiori, figuriamoci il mondo... Trovo che il tuo lavoro, così com'è stato per le origini classiche della natura morta, si definisca, proprio nei suoi tratti paradossali, quasi come un “sofisma” pittorico: attirare l'attenzione sugli aspetti più esteriori del quotidiano (le cose senza merito dei pittori seicenteschi) proprio per farne la materia del discorso, mettere in pittura ciò che c'è di più antipittorico e far diventare la pittura stessa il vero oggetto del paradosso innescato. In diverse occasioni hai spostato ancora il problema, coerentemente con questo esercizio di duplicazione e ribaltamento degli elementi messi in gioco. Penso ai lavori “sagomati”, oggetti ambigui che, pur senza negarlo integralmente, non sono più “quadro”, ma anche alle tavolette Milka nelle quali il processo di mimetismo diviene quasi parossistico, per il loro essere contemporaneamente oggetti reali e virtuali, tavolette di cioccolato “protette” da un'immagine che nega il loro statuto nel momento stesso in cui sembra riconfermalo. Il tuo lavoro, tematizzando la dialettica verità/illusione, se vuoi essenza/apparenza, riafferma e rilancia la complessità del rapporto che la pratica artistica, nello specifico la pittura, riesce ad instaurare tra realtà ed immagine. Vorrei approfondire questo aspetto magari proprio a partire dal progetto che hai realizzato sulle tavole di cioccolata Milka, nel quale hai utilizzato due diverse strategie, sia la tela sagomata sia l'oggetto/multiplo.

A.D.P. Direi che attualmente piuttosto che un ennesimo ritorno, la pittura vive una condizione di prodigiosa inattualità, un “retard” rivendicato come forma di resistenza. Libera dal senso di colpa modernista la pittura mi sembra intrecciare con la contemporaneità una strategia antagonistica al regime delle immagini, per cui valenze metalinguistiche, derive narrative e piacere visivo non sono più termini inconciliabili. Nell’attuale produzione di immagini la pittura è spiazzata, fuori gioco, rimanda ad altri ritmi, altre modalità dell’immaginare. Più veloci e brillanti, grafici e designers, pubblicitari e copywriter, fotografi e videomaker ci raggiungono e seducono con più efficacia, altre finestre di comunicazioni visive si sono aperte, con un cambio di scala abnorme. Non dobbiamo più cercarle, le immagini ci inseguono, ci perseguitano, ci mostrano o pretendono di mostrarci tutto, campo e fuori campo, senza soluzione di continuità, rendendo infine più opaca la visione.

Guadagnato il corner, la pittura si scopre medium analitico, critico ed autoriflessivo. Fuori dalla competizione, senza più niente da vincere o da perdere, la pittura non mette più in quadro il mondo: rimette in immagine le immagini, lo spettacolo del mondo, corrodendone o svelandone lo statuto dall’interno. Per la serie Break cercavo una confezione che mi permettesse di comunicare in modo più evidente la metamorfosi di un quadro, e la quasi bidimensionalità di una tavoletta di cioccolata mi era sembrata perfetta. Mi indirizzai subito verso la cioccolata Milka in cui una mucca viola (già surreale) pascolava in un cliché di veduta alpina che mi sembrò perfetto per un re-mix della pittura di paesaggio. Dal landscape al mediascape il passo fu breve, per questa serie cominciai a ri-trattare frame di provenienza telegiornalistica per i quali, nella declinazione pittorica, inventavo montaggi inediti all’interno di una cornice grafica ben riconoscibile, paradossi visivi nei quali “il reale” (un eccesso di reale) sembra irrompere nella surrealtà dello spettacolo quotidiano.

“Il controcanto è un motivo melodico secondario che si sovrappone o sottopone al motivo melodico principale” (Wikipedia); nel mio oscillare fra oggetto e pittura, segno e referente, mi è sempre sembrato naturale sconfinare dalla specificità del medium e riproporre alcuni lavori anche in scala 1:1, incroci genetici fra catalogo d’arte e packaging commerciali, shopping bag e depliant pubblicitari, un procedere per sovrapposizione ed interferenza fra l’universo dell’arte e quello della merce. "Real Snack" è un multiplo ricavato dalla rielaborazione della Milka…”un prodotto Kraft, cose buone dal mondo”, dieci tavolette di cioccolata confezionate come souvenir mediali e  raccolte in un espositore che ri-calca nella forma e nella grafica quelli veri che quotidianamente incrociamo al bar o sul bancone del tabaccaio. Se l’immaginario pubblicitario permea ogni aspetto della realtà diventando la forma di comunicazione più universale ed immediata a disposizione, per dialogare con il più vasto numero di persone possibile, mi servo di questo immaginario come linguaggio strumentale, restituendone un controcanto intriso di memoria mediatica che ne diventa al contempo anche una decostruzione, lo sguardo fuori campo.

F.M. Ciò che dici mi fa venire in mente la lezione di Roland Barthes in merito a quello che lui chiama “terzo senso” o “senso ottuso”. Barthes illustrando i diversi livelli di senso di un'immagine, dopo aver descritto il primo ed il secondo (livello informativo, ovvero quello della comunicazione, e livello simbolico, ovvero quello della significazione, più stratificato del primo, ma sempre individuabile) parla di un terzo senso, un senso “evidente, eppure erratico, ostinato” che agisce da dietro/dentro l'immagine, e sembra porsi al di fuori del linguaggio, inteso come capacità di spiegare la sua presenza. Il terzo senso è quello che “è di troppo”, un qualcosa che eccede la nostra volontà di spiegazione. Barthes lo chiama senso “ottuso” perchè “sembra spiegarsi al di fuori della cultura, del sapere, dell'informazione; analiticamente, ha qualcosa di derisorio, in quanto apre all'infinito del linguaggio”. Questa affermazione mi pare molto pertinente anche per i tuoi lavori perchè, sia da punto di vista formale che processuale, le scene che rappresenti, gli oggetti, le “situazioni” ibride che allestisci sembrano partecipare contemporaneamente di più registri linguistici, dal dramma all'ironia, senza per questo che uno prevalga sull'altro, aprendo dunque ad una molteplicità di reazioni possibili. Oggi il limite tra oggetto reale e oggetto riprodotto è sempre meno percepibile, un processo di mimesi profondo che sta cambiando il nostro modo di rapportarci al reale, il reale stesso è preda della riproducibilità, di una riproducibilità moltiplicante, una sorta di, concedimi il temine, “effetto matrioska” rispetto al quale talvolta non sappiamo a quale strato siamo, e dunque con cosa e se ci stiamo mettendo i relazione. Il tuo lavoro credo si svluppi molto su questo limite, si gioca molto in questo “spazio sottile” che ormai non è più semplicemente tra reale e virtuale, ma che si realizza proprio nella loro ambigua sovrapposizione, in un reciproco sconfinamento che rende sempre meno percepibile il loro confine. E' inoltre un elemento che contribuisce ad isolare e a definire meglio il tuo lavoro anche all'interno della famiglia della “pop art” alla quale in qualche modo appartieni (o non appartieni?). Se l'intuizione dei primi artisti pop ( tralasciando gli artisti della costa ovest, più narrativi, come Mel Ramos o Wayne Thiebauld) è stata quella di riprodurre non l'oggetto in sé, ma la riproduzione dell'oggetto ( non la Coca Cola ma l'immagine pubblicitaria della Coca Cola, non Marilyn ma la fotografia di Marilyn), in un ottica di “anestesia” della soggettività del processo artistico, nel tuo caso si assiste al ribaltamento di tale pratica. Penso in questo caso all'ambiguità sottilmente ansiogena dei tuoi oggetti che diventano pittura, alla tua pittura che si fa oggetto pur marcando la sua alterità, al suo essere altro rispetto all'immagine ch'essa va realizzando, o meglio, innestando nell'oggetto un virus, un eccesso, una deriva di senso che ne complica e ne dilata la lettura. In alcuni lavori ricostruisci con telaio e tela oggetti tridimensionali e organizzi pittoricamente questa deriva. Come percepisci, da pittore, questo lavoro sui supporti tridimensionali, cosa significa per te agire queste superfici e realizzare questo tipo di opere?

A.D.P. Condivido l’articolazione di questa riflessione e il riferimento al “senso ottuso”, mi piacciono quest’angolo che eccede la perpendicolarità e la “spesa inutile” del senso che fuoriesce dall’apertura ulteriore. Credo che la processualità della pittura in se e la stratificazione dei mie lavori siano ben disposte a questa impertinenza del significante che sopraggiunge a falsare la piega del progetto. 

Cerco sempre, anche da spettatore, il di più, quel “superfluo allo stesso tempo ostinato e sfuggente” che mi sembra affiori principalmente quando ci si mette in gioco in prima persona, senza lasciare a casa la propria vulnerabilità, senza sterilizzare l’interferenza delle proprie ragioni esistenziali. "Le immagini vivono in superficie, se hanno un’anima risiede nella loro pelle, staccare la pelle dalle cose è possederne l’anima che potrebbe abitarle, dislocarla sul corpo sbagliato è un sintomo, il luogo del difficile scambio dentro fuori, di una temporalità fuori sincrono." Scrivevo questo a proposito della serie “Andata e ritorno” cominciata nel 1995, in cui smontavo, spianandoli, i packaging archiviati dai consumi quotidiani per poi ri-calcarli e dipingerli su tela. Adottavo il packaging come soggetto pittorico per farlo poi tornare oggetto, ma rimodellavo la tela, in scala 1/1, seguendo le pieghe di una nuova fustellatura: letteralmente dislocavo il rivestimento semantico di un prodotto sul corpo di un altro, sul corpo sbagliato. 

Con questo trattamento mettevo alla luce strani ibridi, involucri fluttuanti, veicoli soltanto del proprio paradosso: biscotti col look degli assorbenti Tampax, succo di preservativi Hatù, yogurt con la “pelle” di un deodorante o confezioni di birra travestite da passata di pomodori per citarne qualcuno. 

 L’oscillazione fra presentazione e rappresentazione si sviluppava poi ulteriormente con le serie Zoom e May-be (1998/2000), ma questa volta “i replicanti” crescono a dismisura  (come i baccelli de L’invasione degli ultracorpi), mi furono necessari telai tridimensionali per costruire copie “over size” ulteriormente straniate dalla narrazione parassitariamente sviluppata nell’impianto simbolico/persuasivo del suo ospite

­“Micro-storie situate direttamente sulla linea di compenetrazione fra il vissuto quotidiano e il palinsesto di “fiction” di cui è costruito, nel cuore stesso di quelle icone familiari e rassicuranti dove lo scambio fra invenzione narrativa e realtà è già avvenuto e il margine che, per quanto incerto e confuso, divideva il mondo esterno, dei fatti e delle cose, da quello interno delle pulsioni e dei desideri, è saltato; l’ombra, la parodia, i contenuti latenti di gesti e cose non cadono più al di fuori, ma costituiscono essi stessi e rendono percepibili come “reale” la stratificazione di schermi e rappresentazioni in cui quotidianamente navighiamo” 

Riporto questa  mia nota, scritta all’epoca della serie Zoom,  non solo perché mi rappresenta tuttora ancora molto bene, ma perché mi sembra molto vicina anche alla metafora de “l’effetto matrioska” che tu riferisci proprio al reale. La genealogia pop ha avuto sviluppi formali e complicazioni teoriche che almeno dagli anni novanta in poi hanno fatto cadere parecchi steccati. Lo schermo rassicurante dei clichè interpretativi univoci ( circa desimbolizzazione e primato della superficie) è stato da modalità espressive che tornano ad intercettare il presente, uscendo dal circolo vizioso dell'autoreferenzialità. Le specificità mediali e/o iconografiche risultano sempre meno determinanti dal punto di vista dell'attribuzione di valore, le differenze o i ribaltamenti prodotti all'interno dei processi di reinvenzione degli stessi medium mi sembrano ben più urgenti e necessari nel corpo a corpo con la contemporaneità. Pop è il vocabolario visivo collettivo  (…) ll segno grafico nello spazio è diventato l’architettura di questo paesaggio. Il simbolo domina lo spazio… questo paesaggio non è più  fatto di forme e di rapporti spaziali (…)”  - R.Venturi – Learning from Las Vegas. Pop è il reale ed il facile accesso a quel territorio sconfinato e sempre a disposizione che è il web, accumulo di informazioni e narrazioni, coaugulo di immagini e manipolazioni, in cui il "remixing" è ormai direttamente una pratica di apprendimento oltre che di creatività diffusa, capillare anche per la moltiplicazione esponenziale dei mezzi per la produzione e post-produzione digitale. Lo stesso bacino del “medium pittura” si presenta sconfinato e ricco di clichè standard stilistici da abitare con libertà piuttosto che per disposizioni gerarchiche, la mia urgenza  principale è raccogliere ed organizzare dei materiali già “mediati”, tracciare delle linee narrative, in prima persona sceglierne alcune a discapito di altre  e alla fine restituire un artificio credibile piuttosto che inquadrabile.

F.M. Attraverso questo “artificio credibile piuttosto che inquadrabile” il tuo lavoro sembra assumere, in modo più esplicito rispetto ad altre ricerche, una connotazione “politica”, un valore “antagonistico” rispetto ai sistemi di comunicazione vigenti, che sono, nella complessità delle loro funzioni, anche sistemi di potere. Col termine “politico” non mi riferisco certo al sostegno o all'opera di proselitismo di precise dottrine ideologiche, quanto piuttosto ad un'azione sempre trasversale tra territorio artistico e contesto reale e che attua, nello specifico della tua ricerca e delle strategie da te messe in atto, una sottile ma costante destrutturazione del quotidiano, partendo dalla sua “pelle”, le sue icone-iconografie, e procedendo a sondare e ricodificare le sue dinamiche più profonde, percettive, psicologiche, comportamentali. Nel ciclo “Andata e ritorno” l'antagonismo viene messo in atto da “oggetti anomali” che quanto più si mimetizzano nel paesaggio domestico tanto più ne provocano un'alterazione. Escono dalla codificazione visiva prevista, non sono più elementi sotto controllo ad “uso e consumo”; sono loro adesso ad usare e, semmai, a consumare il nostro sguardo. Nei lavori successivi da te citati (Zoom e May-be) la crescita dei “replicanti” ti riporta progressivamente ad una dimensione di lavoro sempre più pittorica i cui ultimi esiti, nonostante continui a portare avanti parallelamente i vari piani di ricerca aperti, si realizzano nelle tele di “(Un)common days” della tua ultima personale alla galleria Deanesi. Non si tratta più di elementi che “abitano ambiguamente” il reale, ma di quadri di paesaggio, più precisamente di nature morte che virano in paesaggi, non-luoghi nei quali “il reale sembra affiorare per atti mancati”, sospeso nella contradditorietà e nel carattere incongruo degli elementi che ne delineano una possibile rappresentazione. Anche qui ritorna uno sguardo dicotomico, sdoppiante, attraverso il quale il vero e il verosimile vengono sovrapposti come in trasparenza, grazie a inversioni di scala, all'allestimento di situazioni incongrue, all'orchestrazione di micro-eventi che concorrono nella loro autonomia e quasi paradossalmente , al “funzionamento” d'una visione d'insieme. Anche in questi lavori, ad una lettura meno immediata, quanto più è dissimulato tanto più sembra affiorare quel carattere antagonista che, a mio avviso, attraversa tutto il tuo lavoro e che lo determina, senza una connotazione esplicitamente ideologica, ma pur sempre come un catalizzatore ansiogeno, più che ironico, di ciò che ci circonda, “immagine difforme” di un “sistema” che appare sinistramente sempre più strutturato ad uniformare la nostra prospettiva di osservazione. 

A.D.P. Si, c’è sempre una doppia riflessività al lavoro, uno sguardo strabico che cerca di sincronizzare generi e dispositivi "desueti" con urgenze sociali ed ansie individuali, storia dell’arte e cronaca quotidiana, propria della condizione postuma della storia e dell’arte dei nostri giorni. Mi piace molto l’accezione di sottigliezza che dai a “politico” ed “antagonistico”, perché mi sembra individui un’esigenza di ri-significazione di queste istanze, magari proprio al di fuori dei compiti simbolici da cui sono storicamente connotate. Ma vorrei riprendere dopo questo filo del discorso, prima è opportuno che ti parli anche di altri due progetti che rientrano sicuramente in quella “sottile ma costante destrutturazione del quotidiano” di cui parli nella tua riflessione, anch’essi presupposti necessari per arrivare ai lavori recenti. Entrambi infatti afferiscono al rapporto con le immagini, il loro trattamento, e le strategie di resistenza nell’economia dello spettacolo. Il primo è "L’ospite", una serie di quadri pensati per mostre a domicilio la cui più significativa realizzazione fu una mostra site specific a Milano nel 1996, fatta in collaborazione con la Galleria Massimo De Carlo nello studio Navone & Associati. Uno studio di design dove installai, mimetizzandoli fra scrivanie, computer, armadi e librerie  una serie di quadri in cui riportavo in grandezza reale immagini di suppellettili e mobili dozzinali, prelevate esclusivamente dai depliant pubblicitari. 

“Alloggiati, residenti temporanei in luoghi diversi dalla propria casa: L’ospite non è (soltanto) un titolo ma un sentimento, una condizione operativa”, scrivevo allora, “quadri che tentano di declinarsi in oggetto, una soglia fra segno e referente che teatralizza l’essere stesso della pittura, la sua inadeguatezza. Arredi comuni ricreati e messi in posa a confessare le potenzialità illusorie delle immagini, a ricostruire una quotidianità straniata e sottilmente conflittuale: errori, il cattivo funzionamento dell’atto comunicativo naturale delle cose che costringe lo sguardo ad interrogare con attenzione l’orizzonte visivo”. 

L’altro è "Take-away (immagini da asporto)", un work in progress, cominciato nel 2000, sviluppato ed esposto con una serie di varianti fino al 2004, anno dell’installazione "X- treme tour " realizzata per la mostra “Flirts. Arte e Pubblicità” al Museion di Bolzano. In questo caso sottoponevo a metamorfosi un altro supporto classico, il foglio bianco da disegno che, fustellato e piegato, trasformavo in shopping bang dopo averci disegnato immagini catturate dai palinsesti televisivi, immagini sottratte al loro naturale ritmo narrativo e riofferte allo sguardo in una scala percettiva che non era più lo schermo/finestra, le immagini ricadevano all’interno delle shopping bag, metaforicamente pronte per l’asporto, appunto. “Una modalità percettiva che sottrae piuttosto che imporre le immagini alla visibilità; e se comunque resta lo sguardo dello spettatore il solo tramite dell’opera, allo sguardo in questo caso si richiede un onere: soffermarsi, rallentare, guardare dentro, cercare o costruire connessioni, raccogliere e raccogliersi intorno a frammenti che invece si oppongono, resistono ad una possibile unitarietà della trama. Un tipo di visione che se da un lato  istituisce il vedere come tentativo di ricondurre ad unità compositiva la successione frammentaria di eventi ed esperienze, al tempo stesso verifica l’impossibilità di un coordinamento fra ciò che è visto e ciò che è veramente comunicato; una sorta di “dislessia visiva” di cui siamo continuamente chiamati a prendere atto”.

Dicevo prima di apprezzare il modo in cui ti riferisci alle connotazioni “politica” ed  “antagonistico” che sottendono il mio lavoro, perché mi piace dislocarne la continuità nella condizione del “ciò che viene dopo”: dopo l’implosione (traumatica) degli orizzonti utopici e il rovesciamento dei paradigmi che li reggevano, dopo lo sciogliersi di quel legame, fra l’operare artistico e la trasformazione del reale, che (per quanto illusorio) molte avanguardie e neo-avanguardie mettevano al centro del loro operare. Credo che i “crolli” degli ultimi decenni e lo sfaldarsi delle “grandi narrazioni” , che strutturano il presente e la sua percezione, rendano quanto mai artificiosa ogni asserzione di intenti univoca, frontale, mentre sento meno distante emotivamente un antagonismo dislocato, allegorico, ratificato nel distacco e insinuato “trasversalmente tra territorio artistico e contesto reale” .

 Il corpo a corpo con le inquietitudini e gli interrogativi più drammatici di questi anni necessita di un filtro, una distanza o, piuttosto, di una narrazione discontinua, indiretta, per atti mancati, Hal Foster in Design & Crime  parla di “allegoria frammentata”. 

Siamo soliti associare automaticamente realismo e realtà, ogni rappresentazione rinvia naturalmente a un referente a cui sappiamo essere, sempre, intrinsecamente legata. La scelta del realismo, dispositivo “fuori moda”, dismesso come la pratica dei generi pre-modernisti (natura morta, paesaggio, scene di genere ecc.) è il paradosso necessario per interrogare questi “(un)common days”, o meglio, l’artificio retorico indispensabile per mettere in quadro la quotidiana sottrazione di realtà, questo strano collage di scorie immaginarie che scorrono in tempo reale senza più referente: il mio è un "realismo senza realtà". 


(un)  common thoughts _ Dialogue A.De Pascale/F.Mazzonelli

in the catalog  (un) common days Paolo Maria Deanesi Editions 2011

In the past we have always assumed that the external world around us has represented reality, however confusing or uncertain, and that the inner world of our minds, its dreams, hopes, ambitions, represented the realm of fantasy and the imagination. These roles, it seems to me, have been reversed. (...) Freud's classic distinction between the latent and manifest content of the dream, between the apparent and the real, now needs to be applied to the external world of so-called reality.  (J. Ballard, introduction to Crash)

 F.M. I would like to start our conversation  by trying to understand how terms such  as metamorphosis and reversibility apply to your work, not only as regards the most obvious aspect, the visual one (the finished work of art that we as viewers see), but also in relation to the project that  underlies  it. In one of your writings you state that “the trend of non-art towards uniqueness (ready made) or, viceversa, of art towards seriality (pop art), has always had a “sentimental rather than a conceptual meaning for me”. I would like you to explain this “sentimental value” which affects the way you approach reality and everyday life.

 A.D.P. Contrary to the common view,  I have always considered ready made a wonderful tale with a happy ending. A public urinal that manages to become a Fountain, to enter museums and art books, seemed to my eyes as a young  working class boy from the province  of Neaples  in the seventies, a promise of emancipation, a metaphor for social mobility ( not to mention Brillo Box, which managed to do the same by just keeping  true to  its identity). Prior to any linguistic or conceptual implications, contemporary art evoked for me horizons of transformation, feelings of opening and inclusion, of  the possible reversibility of any hierarchy,  the opening up  rather then the closing off  of narrative  itineraries.

In current usage  the adjective “sentimental” always has a negative connotation; it is a slippery term, often confused with its degeneration (sentimentalism) and sharply contrasted with what is considered "intellectual". For me it has always meant  the restoration of  urgency, the necessity of an emotional acceptance of  reality,   and,  in daily practice,   a  network,  a non-hierarchical interdependence between intellectual and manual skills, a type of knowledge which does not separate the physical gesture from  thought and regards doing as part of  a real mental process. “To get started”  in Neapolitan dialect  is “mettere mano” , an idiom pregnant with a meaning that goes beyond denotation, which re-establishes the connection between mental, analytical, narrative  and sentimental operations so as to make the distance between ideas and realization fluid and  " fillable " as if “getting started” also were an ideational process able to produce a greater  result than the simple addition of two factors. Though derived  from the jargon of manual work , ‘Mettere mano’ is also used to mean starting less physical operations: one gets started  “ si mette mano”   each time there is a beginning.

I am unable to follow an intuition without starting with a physical action. It is the reality of doing which helps me to draw out the idea, the meaning of my work, even when it is not a painting or a drawing, but  an  installation  or  sound sampling. I  have never cared much whether this approach  was good or bad, whether it was more or less justified  from a theoretical point of view; instead I have discovered a posteriori that this way of dealing with images has a profound resonance in my memory. As a very small child, still unable to read or write, I used to spend entire afternoons copying pages and pages from books. It was letters, therefore, the first images I copied, images of words  which I didn’t know either the sound or the meaning of  (I was about four years old) but  managed to make my own  through visual analogy: by drawing them.

The manipulation of an artist's materials has been my practical way of creating   metamorphoses, a constant feature of my work which has been too often ignored which represents,  even at a distance, a very important and significant symbolic value in itself.  Properly manipulated canvases, frames and sheets  of drawing or water colour paper  have slowly become   the means through which I re-construct the physical aspect of the object represented. I  described them as “pictures that take on a  body” a sort of post-production which expresses the sense of guilt inherent in  painting (both illusionistic and representational) by camouflaging it within more contemporary interfaces: packaging, shopping bags, fruit crates and so on.

It was a way, therefore, of giving form to inadequacy, which, in the effort to fill the distance, produces the “Zelig” effect of a medium, painting, which, though supplanted and marginalised  by a century of modernism and by faster and more seductive media, constantly reappears  each time reinvented and reinforced by its very weakness, never by nostalgia (at least in its more self-aware versions): the procedure by which painting,  in trying to conceal itself incorporates and merges into non-specificity (inducing a degeneration of communicative codes) and becomes the true subject of representation, the underlying narrative to the visual incidents shown in the finished work.

F.M. Yes, painting 'returns' , but   perhaps  it doesn’t need simply to come back but to continue its quest  through an inehaustible dynamic which is anything but simple.  As long as the model can be seen in a different way,  the definition  will never be final, never concluded ,  and painters will go on being different from each other even when painting the same objects. The problem is  always the 'how', how that model fits the painting process; if I think of the many ways I have seen a vase of flowers painted, never mind the world…In my opinion your work can be defined,  in the same way as  the classical origins of still life. by its paradoxical traits, as if it were a “sophism” in painting ; to draw  attention to the most external aspects of everyday life, (the  things seventeenth century painters gave no importance to)  and   make them become  the subject matter, to paint what is  most unpictorial and  make painting itself the real object that triggers off  the paradox. In various instances you have further dislocated the problem, consistent with this exercise in duplicating   and  overturning  the elements in play. I am thinking of the works “with a shape”, ambiguous objects which, though not entirely denying it, are no longer “a painting”,   and also of the Milka bars where the mimetic process becomes almost  paroxysmal  as they are at the same time real and virtual objects, chocolate bars “protected” by an image that denies their status  at the same timet as  it seems to reassert it. Your work, whose theme is the dialectic of   truth/illusion, or,  if you prefer, essence/appearance, reaffirms  and revives the complexity of the relationship that artistic practice, in this case painting, manages to establish between reality and image. I would like to explore   this aspect,  possibly starting from the project that you have develped  with the Milka chocolate bars where you have employed two different strategies, the  shaped canvas and the multiple object.

A.D.P. I think that at present painting is undergoing a period of complete irrelevance  rather than  an umpteenth revival, a   "retard"  claiming to be  a form of resistance. It seems to me that painting, free from the modernist sense of guilt, shares with other contemporary trends a strategy antagonistic to the regime of images, so that metalinguistic values, narrative itineraries and visual pleasure are no longer incompatible terms. In the creation of images today painting is off-guard, off-screen, refers to other rhythms, other modes of imagination. Faster and more brilliant advertisers and graphic designers, photographers and videomakers reach and seduce us more effectively; new communicative windows have been opened with an extraordinary  abnormal  change in scale. We no longer need to look for images;   they chase us, pester us, show us or claim to show us everything, in and off screen, without interruption, thus rendering vision more opaque. Having fought its corner, painting has discovered itself  to be an analytical, critical and self-reflective medium. Outside competition, with nothing to win or losepainting  no longer portrays the world: it projects  through images the sights, the wonders of the world, corroding or revealing their statuses  from the inside. As regards my series called Break , I was looking  for a kind of set up that would allow  me to communicate in a more overt way the metamorphosis of a picture, and the shape of a chocolate bar, which is almost bi-dimensional ,  seemed the perfect choice to me. I chose the Milka chocolate bar showing  a violet cow (surreal in itself) grazing in a cliché of Alpine landscape which looked perfect for a re-mix of landascape painting. From landscape to mediascape it was a short step; for this series  I started to  re-manipulate frames from the news, inventing for my painted versions  unusual editings inside an easily recognizable graphic framework, visual paradoxes in which   "reality" (an excess of reality) seems to break into the surreality of everyday life.

 " Counter-melody is a secondary melody which overlaps or underscores the more prominent lead melody"  (Wikipedia) In my wavering between object and painting, sign and its referent,  it has always come naturally  to me to trespass on the specificity of the medium and represent  some workseven on a scale of  1:1 as  genetical cross-breeds  between an art catalogue and commercial packaging, shopping bags and advertising leaflets, thereby allowing  the world of art and the commercial world to overlap and interefere with one another. Real Snack is a multiple derived from the ri-elaboration of Milka..."a Kraft product, delicacies  from  the world", ten chocolate bars packaged as media souvenirs and collected in a  display cabinet which reproduces in the form and in the  graphics the real ones seen daily  in bars or on the tobacconist's counter.  Since the advertising imagination permeates all aspects of reality, having become  the most universal  form of communication immediately at hand for dialogue with the greatest number of people I use its  imaginative world as an instrumental language, playing back  a countermelody steeped in media memory which becomes at the same time a form of  deconstruction,  an off screen look. 

F.M. What you say reminds me of  what Roland Barthes calls "third meaning" or "obtuse meaning". When describing the various layers of meaning of an image , (the first level being  that of information and communication,  the second  that of  symbolic signification,  which is in  a deeper but still detectable layer than the first, Barthes speaks of a third meaning, a meaning which is " evident, yet evasive and persistent" acting from behind/within the image,  and which seems to locate itself outside language  and to be able to explain its own presence. The third meaning refers to what "is in excess",  something that goes beyond our will to explain. Barthes calls it "obtuse" meaning because "it appears to extend outside culture, knowledge, information: analytically, it has something derisory about it ,  opening out into the infinity of language".

In my opinion this statement is also very relevant to your work because, both from the formal and  the procedural   point of view, the scenes you represent, the objects, the hybrid "situations" you mount seem to share various linguistic registers at the same time, from tragedy to irony, with no single one prevailing over  the  others, thus opening up a multiplicity of possible reactions. Nowadays the boundary between real object and reproduced object is less and less perceptible, a process of deep mimesis which is changing our way of relating to reality, reality itself is  prey  to reproducibility, to a  multiplying reproducibility, a sort of what I would call matryoshka effect",  so that sometimes we do not know which layer we are in and therefore what we are relating  to if anything.

I think  much of your work develops along this boundary, it plays in this "thin space" which is now not merely between reality and virtuality, but owes its very existence to the ambiguous overlap between them,  in a reciprocal trespassing which makes their boundary less and less  perceptible.  Moreover it is a feature which contributes to isolating and better defining your work  within the family of "pop art" to which you  in some way belong (or  do you?)

Whereas the intuition of the first pop artists (ignoring the more narrative W est  Coast artists such as Mel Ramos or Wayne Thiebauld) was to reproduce not the object in itself, but the reproduction of the object (not Coca Cola but the advertising image of Coca Cola, not Marilyn, but the photograph of Marilyn),  from the point of view  of an "anaesthesia" of  the subjectivty of the artistic proces, we are witnessing  a reversal of this practice. I am thinking for example of the subtly anxiety-inducing ambiguity of your objects which become paintings, of your paintings which become objects, while stressing their otherness, of the fact that your painting is something different from the image that  it produces, or rather inserts a virus into the object, an excess, a halo of meaning which complicates and expands its reading. In some of your works you  reconstruct  tri-dimensional objects with frame and canvas and organise this process pictorially. How do you perceive as a painter this work, what does it mean to you to manipulate these surfaces and create this type of work?

 A.D.P. I agree with your remarks and the reference to the"obtuse meaning", I like the angle that goes beyond the perpendicular  and the "useless expenditure" of meaning which is produced by  opening the compass  wider.  I think that the process of painting itself and the layering of my works lend themselves to this ' impertinence of the signifier '   which    distorts  the look  of the project.

Even as a viewer I always look for redundancy,  that " superfluous  and at the same time persistent and evasive" which seems to surface when one  puts oneself forward without leaving one's vulnerabilty at home, without sterilizing the interference from one's existential ideas. The images  live on the surfaces; if they have a soul,  it resides in their skin,  removing the skin from things means possessing the soul which might live there;  misplace  it  onto the wrong body is a symptom, the locus of a difficult internal/external exchange,  outside synchronic temporality. 

I wrote this with reference to my  work in progress  Andata e ritorno  which I  started in 1995. This involved dismantling and flattening  the packaging of everyday shopping in order to trace  and paint  it on canvas. I used  packaging as a pictorial subject to turn it into an object again, but  modelled the canvas on a 1/1 scale  by following the folds newly punched:  I literally I misplaced  the semantic covering of  one product onto the body of another, onto the wrong body. 

Through this process I brought to light strange hybrids, floating wrappings, simply vehicles of their own paradox: biscuits with the look of Tampax sanitary towels, fruit juice of Hatù condoms,  youghurt   with the "skin" of a deodorant or beer packs dressed up as tomato puree,  to quote some  examples. The fluctuation between presentation and representation further developed with the series Zoom and May-be (1998/2000), but this time the "replicants" grew  out of all proportion  (like the pods in "The invasion of the body snatchers"), I needed three-dimensional frames to build oversize copies of consumer goods, chosen for their meaningfulness and persistence in the collective imagination and further estranged from the "parasitic narrative" inserted in the symbolic-persuasive structure of its  guest. I quote this note of mine, written at the time of the series Zoom, because it seems to me also very close  to the metaphor of the "Matryoshka  effect" that you refer to. Pop genealogy has undergone formal developments and theoretical complications which at least  from the nineties  onwards have knocked down many fences. The reassuring screen of univocal interpretative cliché about desymbolisation and the primacy of surface was broken by expressive modes which re-capture the present, abandoning the vicious circle of self-reference. Media and/or iconographic specificity are less and less crucial from the point of view of making value judgements, the differences or the capsizing produced inside the processes of re-invention of the media themselves seem to me far more urgent and necessary in grappling  with contemporaneity.

Pop is the collective visual vocabulary " (...) the graphic sign in space has become the architecture of this landscape. The symbol dominates space...this landscape is no longer made of forms and spatial relationships (...)" R: Venturi- Learning from Las Vegas. Pop is reality   providing easy access to that boundless and always available terrritory which is the web, an accumulation of information and narrative, a concentration of images and manipulations, where remixing is now a learning practice as well as a  widespread  form of  creativity, widespread thanks to the  exponential multiplication of the means of digital production and post-production. The area of the "pictorial medium" itself appears boundless and rich in cliché or stylistic  forms  to inhabit with freedom rather  than to arrange  hierarchically; my main vocation is gathering and organising materials which have already been mediated, trace some narrative lines, choose one item while discarding others, taking on myself the responsibility  of giving  back an  artefact   which is credible rather than  suitably set in  its context.

F.M. By means of this "credible rather than contextualizable artifice" your work seems to   assume, in a more explicit way, as compared to other trends, a "political" connotation, a value  that is antagonistic towards  present -day  communication systems which are, in the complextity of their functions, also systems of power.  By  "political" I  certainly do  not  mean  that they support or  preach  specific ideological doctrines, instead I mean that the interchange between art  and reality  in your work  and  the strategies you  empoy, subtly and constantly de-construct  daily life, starting from its "skin", its icons ,  and proceeding to explore and re-codify its deepest perceptual , psychological and behavioural dymamics. In the cycle "Andata e ritorno"  this antagonism is realised in  "anomalous" objects which the more they are camouflaged in the domestic landscape the more they alter it. They depart from the expected visual codification, they are no longer items under control to "be consumed"; They are now the ones which  use and even consume  the viewer's  gaze. In the  works you quoted (Zoom and May-be) the increase in "replicants" leads progressively to a an increasingly pictorial dimension  in your work , alongside the various other projects in which you are engaged. The latest results of this new emphasis are the canvases entitled  "(Un)common days", in your  most recent  one man exhibition at  the Deanesi gallery. These works  no longer show  objects which "ambiguously inhabit" reality, rather they are landscapes, or  more specifically ,  still lifes that turn into landscapes, non-places where "reality seems to surface  unintentionally", suspended in the contradictory and incongruous nature of the elements that outline a possible representation. Here again the dichotomous split  vision  reappears, through which truth and verisimilitude overlap as if  against a light , thanks to scale inversion, the setting up of incongruous situations, the orchestration of micro-events which contribute in their autonomy and almost paradoxically to the " functioning" of  a coherent overview. If we read these works more deeply, they also reveal,  though less obsviously ,  that antagonistic feature which in my opinion characterises all your work and marks it  off as being , without  any  explicit ideological connotation,   an anxiety-inducing, raher than merely ironic,  catlyst  for what surrounds us,  a "dissimilar image" of a "system" which appears  to threaten  more and more by making our point of view  more uniform.

A.D.P. Yes ,  there is always a double reflexivity  to my  work, a  cross-eyed perspective  that tries to synchronise "obsolete"  genres  and devices  with social urgencies and individual anxieties, history of art and daily news, typical of the posthumous condition of today's history and art. I like very much the subtle meaning you attribute to "political" and "antagonistic",  because it seems to me it individuates a need for  the reinterpretations of  these expectations,  possibly just outside the symbolic functions  of their historical connotations. I shall return to this topic later on;  I'd like  first to talk about  two more projects which certainly  belong to that "subtle but constant deconstruction  of daily life"  to which you referred, as they are also necessary to the understanding of my recent work. Both  are concerned with the relationship between images, their manipulation and  strategies  for resisting the economics of performance. The first is The guest, a series of pictures  devised for exhibitions in private homes the  most significant of which was a  " site specific "  exhibition in Milan in 1996, in collaboration with the Massimo De Carlo Gallery in the offices of  Navone & Associates. It was a design studio in which I installed,  concealed among  desks, computers, cupboards and bookcases, a series of pictures   reproducing life-size images of cheap furnishings and furniture taken solely from advertising leaflets. " Temporary residents lodged elsewhere than in their own homes: The guest is not (only) a title, but a feeling, an operational condition", I wrote then, "pictures  trying to turn into objects on the threshold between the sign and the referent, thereby dramatising the very essence of painting, its inadequacy. Common furnishings recreated and placed so as to underline the illusory potentiality of images, to reconstruct a daily life which is  estranged and subtly conflictual: errors, the malfunctioning of the natural communicative act  which compels the  observer to question the visual horizon carefully . The other work is Take away, take-away images, a work in progress started in 2000, developed and exhibited with a series of variations up to 2004, the year of the installation X-treme Tour   for the exhibition "Flirts, Art and Advertising" at the Museion in  Bolzano. In this case I subjected another classic  piece of artist's  materials  to metamorphoses. A sheet of white drawing paper,  duly punched and folded, was transformed into a shopping bag.  Images taken from TV schedules were drawn on it, images stolen from their natural narrative rhythm and re-presented to the  observer  on a perceptual  scale different from the screen/window,   images which were inside the shopping bag  and  metaphorically ready therefore to be taken away. "A  perceptual modality which remove images from view   rather than  imposing them;  and even if the eye of the viewer is still the sole medium through which the painting is seen, the eye  in this case is required  to work :  to pause, to slow down, to look inside, to look for or build connections, gather and gather around fragments which oppose and resist a possibile unity of plot. A type of vision which on the  one hand attempts to impose  compositional unity on the fragmentary sequence of events and experiences  and  at the same time verifies the impossibility of coordination between what is seen and what is communicated in reality: a sort of "visual dyslexia" which we are continually asked to acknowledge.  I was saying earlier on that I appreciate the way in which you refer to the "political" and "antagonistic" connotations which underlie my work, because I like to disrupt  the continuity  of "what comes after": after the (traumatic) implosion of utopian horizons and the  overturning of the paradigms on which they were based, after the unloosing of that tie between artistic pratice and the transformation of reality, which ( however illusory) many avant-gardes and neo-avant-gardes put at the centre of their work. I think that the "collapses"  in recent decades and the break up of " grand  narratives" which structure our present and the way we perceive it, invalidate  any univocal,  head-on statement of intent, less emotionally distant  I feel is a dislocated, allegorical antagonism,  which is  ratified in its detachment and inserted "transversally between the artistic field and reality". The struggle with the  anxiety  and  dramatic questions of  recent years needs a filter, a distance, or rather a discontinuous  and indirect narrative which proceeds through unintended mistakes.

Hal Foster in Design and Crime speaks of fragmented allegory, we are used to automatically associating realism and reality, with each representation referring naturally to a referent to which we know it is always intrisically tied. Choosing realism, a discarded out of fashion pre-modernistc practice (still life, landascape, genre scenes, etc.) is paradoxically necessary for questioning  these (un)common days, or better, it is the indispensable rethorical device for framing the daily  removal of reality, this strange collage of more or less imaginary dross which flows in real time without a referent: mine is a realism without reality.