Soglie _ Christian Caliandro
testo per la mostra “Soglie” Paolo Maria Deanesi Gallery Rovereto (TN) _ 2013
Sogni di un’altra vita? Ma dove? Gradualmente la mappa immaginaria della California, quella spuria, svanisce, e insieme a essa il lago, le case, le strade, la gente, le macchine, l’aeroporto, la setta dei credenti con la loro peculiare avversione per le culle di legno, ma perché tutto questo svanisca, è necessario che svanisca anche una moltitudine di sogni interconnessi, che coprono anni e anni di tempo reale. P.K. Dick, Valis (1981)
[…]Antonio De Pascale lavora per dimostrare come la pittura possa svolgere, ancora oggi, una funzione di critica radicale della realtà esistente. Come la pittura, nella gloria della sua inattualità, se orientata nel modo giusto, sia in grado di comprendere e di rendere leggibile la natura profonda del presente come lo stiamo (ri)conoscendo. Dissigillando la bolla in cui viviamo da troppo tempo. […]La realtà è lontana, viaggia distante, e non sembriamo in grado di afferrarla nemmeno per rigirarcela fra le mani. Figuriamoci per capirla. C’è una barriera, uno schermo – ancora, sempre – tra ciò che stiamo vivendo e ciò che ci raccontiamo. La nostra passione per la “dissimulazione” – la distanza precisa e incolmabile tra ciò che affermiamo e ciò che facciamo, tra le nostre dichiarazioni e le nostre azioni, tra i nostri obiettivi presunti e i nostri comportamenti effettivi – ci sta ingannando forse definitivamente. […] I nuovi paesaggi urbani che attraversiamo ogni giorno e ogni ora condensano la radice fantasmatica, normalmente indecifrabile, di questo presente italiano. […] Nelle due grandi e inedite Soglie (2013, olio su tela), che si guardano e si riflettono all’ingresso combinando un cuneo prospettico che è anche e soprattutto un canale percettivo, la saracinesca abbassata e l’ingresso sbarrato di negozi reali chiusi nel giro di pochi mesi a causa della crisi economica dipinti in bianco e nero stanno per tutti i negozi svuotati, le attività scomparse e dimenticate, sommerse dal diluvio economico e psichico. "Jolanda’s Shoes", recitava/recita la scritta sulla vetrina coperta dalla carta dipinta: ma il negozio non è ‘lo stesso’ della realtà e l’immagine-documento viene trasfigurata. C’è una sfasatura, uno scarto: questo scarto è la rappresentazione. Il medium pittorico viene stressato e diviene lo strumento per la creazione di una distanza rispetto al trauma della realtà: il bianco e nero dei due quadri si rifà esplicitamente al Neorealismo di Rossellini, di De Sica e di Rosi, ma come sottoposto a un processo allucinatorio.
Neorealismo + Metafisica + 1997: fuga da New York.
"Il Piccolo Cameo" (il nome è ormai quasi completamente cancellato, irriconoscibile) era probabilmente un negozio di antiquariato. Ma l'artista se n’è accorto davvero solo quando ha chiuso: il ricordo ricostruisce l’attività nella sua assenza; cova e produce i fantasmi di questi negozi; come la familiarità degli elementi nello spazio urbano percorso quotidianamente risiedeva nell’assenza della loro percezione, così la loro seconda vita – nel territorio della memoria e della rappresentazione – comincia ed è possibile unicamente post mortem. “…come un ‘doppio’, coperto completamente dalla sua riproduzione, è vero, ma non senza una leggera sfasatura, che permette di poter riconoscerlo e tenerlo sempre presente” (Pier Paolo Pasolini, Petrolio). A dirci il modo della nostra vita attuale sono anche i frammenti di Pattern (2013), in cui la pittura insegue in misura ancora maggiore il confine tra critica sociale e astrazione. Nell’immagine-simbolo della mostra, la grata si riflette sulla vetrina, che a sua volta ci lascia intravedere i portici di una tipica strada di città del Nordest mentre una figura spettrale attraversa il nostro campo visivo. Scompaiono gli indirizzi, scompaiono le strade, scompaiono gli oggetti e il mondo rivela nuove, inedite possibilità. Il buco nero diventa un buco bianco. La saracinesca, la vetrina coperta di carte, l’anonimo negozio vuoto sono residui, avanzi, reperti che - dopo aver ratificato e analizzato la fine della civiltà precedente – immaginano, articolano e costruiscono un’epoca di altri, diversi sguardi. Di opportunità: “se chiudi gli occhi davanti a qualcosa di spaventoso, finirai per avere sempre paura” (David Peace). Il momento di massima chiusura di orizzonti coincide esattamente con l’attimo di massima apertura: e i fattori fondamentali di questa operazione consistono nell’essenzialità degli strumenti, nella disponibilità verso il mondo e nella responsabilità nei confronti dell’Altro. […]…Ci si ostina a negare la realtà, mentre la sua proiezione immaginaria si è già ampiamente sgretolata. Ma non basta ancora. Ci si aggrappa ai brandelli rimasti, alle scorie dei sogni, per la paura di ciò che esiste davvero in fondo al pozzo. E allora, quando un disagio non riesce ad esprimersi, invade e paralizza ogni angolo dell’anima. Più l’angoscia viene negata, più governa le nostre scelte. L’opzione più efficace e logica (l’unica, in effetti) è, a questo punto, quella di tematizzare questo disagio. Di esplorare il “retro” della facciata superficialmente angosciante, per scoprire gli aspetti più profondi e importanti del tempo che ci è dato di vivere: per catturarne lo spirito e per dare dunque un senso a questo contemporaneo. […]A partire dall’insicurezza, dalla precarietà, dalla desolazione in cui viviamo – e non escludendole sistematicamente dallo sguardo.
[…] i fantasmi siamo noi.
La presa sulla realtà parte invece dalle condizioni e dall’esperienza di vita individuali e collettive, unita alla conoscenza filologica di una tradizione culturale che è sul punto di scomparire, che è già scomparsa – travolta dalla marea dell’ultimo trentennio. E il “diario visivo” di Antonio De Pascale intreccia e sovrappone costantemente autobiografia e narrazione collettiva, livello individuale e storia comune, vita propria e vita del Paese. La produzione autentica di senso risiede, sempre e comunque, nella considerazione attenta, appassionata e anche dolorosa dell’ambiente materiale e immateriale in cui si vive, nel pensare più che a illusorie “vie d’uscita” (cioè: vie di fuga, di evasione) all’esplorazione sistematica del proprio spazio interno. […] Quando ciò che vediamo sullo schermo, sulla pagina e nello spazio espositivo combacia stranamente con la realtà esterna, illuminandola, interpretandola e spiegandola, vuol dire che un nuovo atteggiamento sta per diventare finalmente pratica diffusa. È un processo già ampiamente in atto: basta, anche qui, guardare. Il ritorno alla e della realtà è anche il momento in cui non dobbiamo più rimpiangere le idee e i progetti non realizzati, perché ce ne sono altri - sorprendenti e duri, inesorabili e scintillanti, che non sarebbero esistiti senza l’attraversamento di questo deserto. E che esistono, nella propria forma e attitudine, solo grazie all’esperienza di questo attraversamento.
Così, la complessa serie Quo vadis? (2011/12 _ acrilici su tele sagomata), esposta in questa occasione per la prima volta in versione integrale, costituisce per così dire il positivo del negativo Soglie - il loro lato più narrativo e pieno, il necessario pendant e corollario. Qui il trompe-l’oeil “compete” direttamente con il paesaggio mediatico, con la seconda natura del flusso informativo, che lì è ormai definitivamente superato, disperso, disgregato. Dagli zainetti dipinti su tele sagomate, “esondano” i disastri e le tragedie dell’Italia negli ultimi anni. Queste opere non hanno a che fare con l’assenza, ma con presenze ingombranti, con eventi drammatici che interpellano noi, la nostra coscienza, che chiamano in causa la nostra responsabilità di cittadini e di uomini: alluvioni, terremoti, affondamenti, incendi di campi rom, “terre dei fuochi”, migranti annegati: dipinti in colori ipersaturi, questi bagagli sovraccarichi (Fardelli d’Italia è il sottotitolo della serie) contengono rappresentazioni e scenari post-apocalittici, tremendi e infernali, che pure fanno parte della quotidianità del nostro Paese. Se le Soglie sono apparizioni di un futuro colato tra le crepe del presente, Quo Vadis? rappresenta la materializzazione di una storia possibile, che racconta la consapevolezza civile, e crudele, di una fine “che non finisce di finire” (Marco Belpoliti). Di un tempo costantemente attraversato da faglie e fratture, che continua ad accadere sempre uguale a se stesso annullando le dimensioni del passato e del futuro, le scansioni e i rapporti di causa-effetto. La “riconquista” della realtà non si configura dunque come un ritorno nostalgico (e del resto impossibile: il mondo del passato, degli anni Sessanta come degli anni Ottanta, non esiste più). È piuttosto la fissazione, il riconoscimento di questo presente così indefinito, sfuggente, schizoide, distopico. È la cattura di questo strano “fantasma concreto”, di questa “materia immateriale” di cui è fatto il tempo in cui ci è dato di vivere. Un realismo inedito, per una realtà inedita. In questo gesto consiste un’alterazione letteralmente rivoluzionaria del punto di vista: e, al tempo stesso, un rovesciamento dell’intero quadro di riferimento. Al centro esatto di questo processo di ricostruzione di uno sguardo sulla realtà e di ricostruzione di se stessi, della propria identità (…), c’è il racconto. È la narrazione – artistica, letteraria: culturale - che crea sempre (e specialmente in Italia) l’intercapedine, la crepa in una delle bolle in cui periodicamente amiamo rinchiuderci. Non la trova semplicemente: la costruisce.
[…] La crisi è una soglia.
Che richiede la totale e radicale riconfigurazione dei paradigmi, dei punti di riferimento che regolano la nostra percezione del mondo. Che interroga ed esige la trasformazione di noi stessi e della nostra vita. E non c’è nulla come l’arte e la cultura che riesca ad assolvere questa funzione, nella maniera più completa ed efficace - allenandoci a trovare soluzioni inedite a problemi che ci paiono insormontabili, mutando i punti di vista sui fenomeni, stabilendo connessioni tra eventi e idee, articolando livelli molteplici di interpretazione.
La crisi è una soglia.
Che schiude orizzonti.
(Che lascia intravedere l’altrove).