Guido Bartorelli

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La voragine dove l’occhio ha finalmente tregua

Anche se a tutta prima può sembrare ragionevole, sarebbe del tutto fuorviante approcciare i dipinti di Antonio De Pascale, in particolare quelli che compongono la serie Rifrazioni, credendoli sorretti da spontaneità rappresentativa, o meglio illustrativa, per quanto figure e ambientazione risultano felicemente icastiche, conformate da un pennello fedele e preciso. La disinvoltura descrittiva simula indifferenza nei confronti delle complicazioni formali, dà l’impressione di volersi semplicemente funzionale alla situazione che è inscenata, da gustare per la capacità di sommuovere la tensione narrativa, per quanto condensata in inquadrature che non risolvono. Per certi versi è proprio così: De Pascale è un illusionista, l’artefice di avvincenti teatrini inscatolati tra il cielo e le quinte prospettiche – più avanti ci si dedicherà alla commedia apocalittica che si svolge al loro interno. Eppure la rappresentazione è solo quel che appare in superficie. Uno sguardo più attento è messo dell’avviso quando si accorge della carenza di peso che insidia le figure. Queste sono impregnate dalla luminosità tersa, da cartolina, e proprio per questo falsa, che inonda ogni cosa. L’immagine ne risulta svuotata, riportata a un’evanescenza da “larva”: pellicola inconsistente per quanto dettagliata. La lucidità ottica, l’alta definizione dei particolari non sono che un gioco di apparizioni erranti, deviate: rifrazioni, appunto. La catastrofe non è solo l’evento di cui si è allestita la fiction, ma, a livello strutturale, è il collasso dell’immagine su se stessa, il suo sprofondamento, anche nel senso di “messa in profondità”. La crisi dell’immagine come strumento per penetrare al suo interno: questa mi pare un’appropriata chiave di lettura dell’arte di De Pascale.

Scavare nelle immagini vuol dire cercare il fondo della loro natura, quel meccanismo occulto che rende possibile il miraggio. Per quanto convincente sia il miraggio – e quello in questione è magistrale –, non ci si deve scordare che l’immagine è un artificio. Ciò che affascina e richiede indagine è che il suo funzionamento non è affatto trasparente, come è invece quello dell’artificio linguistico. L’organizzazione sintattica e semantica della frase è stata decodificata tramite l’individuazione delle sue componenti, a loro volta analizzabili in sotto-componenti via via più semplici. Grosso modo, dalle proposizioni che costituiscono il periodo si passa alle funzioni logiche, quindi dalle singole parole ai morfemi interni a esse, per arrivare infine all’alfabeto, ossia al materiale primo, atomico, su cui tutto si costruisce.

L’artificio ottico dell’immagine, dell’icona, è al contrario “analfabeta”, manca cioè di un’articolazione interna afferrabile con metodo linguistico. Nella casistica sempre sfuggente dell’essere immagine, si ha il più delle volte a che fare con totalità complesse e irriducibili, che sono state giustamente paragonate a corpi. Da sempre l’uomo ha risposto al fascino delle icone personalizzandole, o addirittura facendole oggetto di idolatria – si ricordi che “idolo” deriva da “eidolon”, uno dei due termini greci per dire “immagine” (l’altro è “eikon”, da cui “icona”). È evidente che non è indolore sezionare un oggetto personificato, un organismo percepito come dotato di carne e anima. Farlo non equivale a smontarlo ma a violarlo, anzi a smembrarlo. È per questo che ci si guarda bene dallo strappare la fotografia di una persona cara, a meno che, presi dall’ira, non la si intenda colpire proprio con un tale atto.

Conviene fornire alcuni esempi al riguardo, che fungeranno al contempo da termini di paragone utili a comprendere il lavoro di De Pascale. Il primo è il décollage, tecnica a strappo che ha improntato l’opera di artisti quali Mimmo Rotella, François Dufrêne, Raymond Hains, Jacques Villeglé. Non è un caso che la sua diffusione risalga agli anni tra Cinquanta e Sessanta, in contemporanea con l’esponenziale intensificazione visiva che ha portato a definire la nostra come società dell’immagine. È l’immagine cui si è affidato il boom capitalistico per mantenere eccitata la massa degli acquirenti tramite qualcosa di più desiderabile che non la stessa funzionalità della merce. Il décollage è un collage al contrario, lavorato in togliere, bucando la stratificazione di immagini pubblicitarie che fascia e sostiene l’ambiente del consumismo. Sennonché, nel tutto organico dell’immagine, non c’è una combinatoria di elementi da incidere senza straziare un tessuto. Di qui l’aspetto aggressivo e politicamente antagonista dello strappare i manifesti, che è di fatto una offensiva scagliata contro le icone del desiderio. Il décollage è squarcio, scorticazione, macerazione. Allo stesso tempo, è la ferita che l’immagine si infligge nell’evadere dalla stereotipia. L’immagine si è sottratta alla mortificazione del messaggio univoco della pubblicità, ha riconquistato la libertà, costi quel che costi.

Contemporaneamente, il décollage, o meglio dé-coll/age, è il termine d’elezione pure di Wolf Vostell, che agisce non solo su carta, come gli altri, ma anche sull’immagine trasmessa dalla televisione, strumento principe della comunicazione di sistema. L’intervento consiste sia nel sovrapporre allo schermo svariati oggetti con funzione profanatoria (come il filo spinato), sia nell’agire direttamente sulla recezione del segnale elettronico scombinandone la sintonia. In comune con Rotella e compagni c’è la decomposizione violenta, iconoclasta, dell’immagine pubblica e la sua liberazione dall’ideologia dominante. La differenza sta nel fatto che l’attacco di Vostell mira al cuore genetico dell’immagine: insinuandosi nei circuiti interni, esso corrompe il processo che porta alle accensioni dei pixel, che pertanto partoriscono icone stravolte dalla nascita.

Da Vostell, cui va affiancato Nam June Paik, pure all’opera con mezzi simili, è agevole approdare a un terzo esempio, che riguarda l’attualità delle immagini digitali, a matrice numerica. Ancora si tratta di mettere in crisi il flusso visivo che incessantemente illumina i nostri schermi adulterandolo alla sorgente. La sperimentazione artistica denominata glitch immette piccoli errori nella codificazione dell’immagine, che ne risulta guastata, intrinsecamente distorta, frantumata in conformazioni impazzite. Il bug disocculta il nesso tra l’apparizione e il sommerso lavorio informatico. È lo svelamento della natura fantasmica del nostro habitat visivo: una debole pressione è sufficiente a disgregarlo, a farci ritrovare al cospetto del nudo, incomprensibile, traffico dei dati.

De Pascale non utilizza le nuove tecniche artistiche. Egli dipinge. E lo fa in modo imitativo, naturalistico. Eppure, come si è premesso, la sua arte è ingannevolmente tradizionale, e non meno concettuale di quel che si è ricordato sin qui. Per lui la pittura non è un ritorno ma un ritardo. Portatrice di una lentezza d’altri tempi, essa è lo strumento efficace e intimo per aprire una smagliatura nell’involucro delle immagini, una minuscola nicchia di resistenza in cui provare, per un attimo, a prendere il controllo. Un dirottamento lieve e meditativo, che è il fugace guadagno di un lavoro estenuante. Ciò non significa portare allo scoperto la realtà sottostante il velo di Maya: non si può certo credere, oggi, nella separabilità tra realtà e rappresentazione, libertà e condizionamento, l’oggetto e la sua icona pubblicitaria, l’identità e lo sciorinarsi dei selfie. Quelli che un tempo si potevano ritenere fronti opposti, per quanto incerti ne fossero i confini, si trovano definitivamente fusi assieme in una inarrestabile centrifuga (in tutti i sensi del termine). Non resta allora che imprimere un sussulto appena destabilizzante al fluire spettacolare della realtà/rappresentazione.

La voragine che si ripete, beante e minacciosa, in tutti i dipinti della serie è il perturbamento narrativo che contrasta con l’indifferenza degli astanti, ma è anche l’inciampo dello spettacolo visivo su se stesso. La voragine è la trasposizione pittorica dei crateri del décollage e del glitch. Non a caso, l’incidente riguarda quella che è forse la forma più emblematica dell’odierno rito del vedere: a essere lacerati sono gli spazi, immacolati ed effimeri, degli stand di una fiera, in particolare di una fiera d’arte contemporanea. Ne siamo certi dall’aspetto di ricercata nonchalance che distingue buona parte delle persone che vi stanziano, anche se risultano inspiegabilmente scomparse le opere. Siamo là dove il bel mondo celebra il proprio trionfo intellettuale e finanziario nel nome dell’immagine innalzata alle altezze dell’arte: l’architettura che assomma i caratteri del santuario e della borsa valori; il non-luogo, anzi il junkspace di cartongesso e aria condizionata, che atterra, sempre uguale a se stesso, nei contesti più diversi e con totale indifferenza per tali contesti. Tutto ciò, lo sappiamo bene, sottende un’allarmante altra faccia della medaglia, che De Pascale porta a convivere con la prima in disprezzo di ogni distanza di sicurezza e convenienza: gomito a gomito con l’umanità gentile, stanno militari in assetto di guerra, che manifestano le emergenze violente generate dal sistema. Accanto agli esseri umani, trovano posto svariate specie animali e oggetti del tutto incongrui, quali panni stesi. Ciascuna scena è un décollage dipinto, dal che deriva la reciproca inconciliabilità delle figure. Queste sono state estratte dall’archivio che l’artista ha collezionato nel tempo e convogliate in un perverso, enigmatico “tutti in pista”. Ogni singola figura è un frammento estrapolato da contenuti mediatici che non ci è dato di riconoscere, di modo che ne risulti interrotta ogni ovvietà visiva. Eppure, grazie al miracolo pittorico, l’accumulazione diventa organismo, la commedia è plausibile. La contraddizione tra possibile e impossibile entra in fase di stallo. Si noti che lo stallo, la messa in “folle”, ha sostituito l’obiettivo della libertà. Dopo che i fronti contrapposti sono venuti meno, non si può che inseguire una condizione di libertà obliqua, depotenziata, che non è pulsione ideologica ma è solo un temporaneo blackout indotto dei condizionamenti.

Lo stallo della contraddizione riguarda pure la luminosità intrinseca alle figure. Da una parte essa è la condizione migliore della visibilità, mai sazia di particolari; dall’altra è il parossismo della visibilità spinto sino al punto di rottura, sino alla voragine che strappa una zona d’ombra dove l’occhio ha finalmente tregua. I personaggi sono dediti ad azioni connesse al vedere, o meglio al malessere del vedere. Oltre agli spettatori del vuoto lasciato dall’assenza delle opere d’arte, scorgiamo figure che puntano col binocolo a un orizzonte invisibile, altre che osservano attraverso lo schermo del cellulare, altre ancora che si aggirano con gli occhi bendati. Non poteva infine mancare un cieco, col bastone bianco e il cane. Gli animali sono gli unici che sanno accorgersi di noi, osservatori esterni al dipinto: immagini che ci osservano, che da noi forse vogliono qualcosa, per dirla con William J.T. Mitchell, fosse anche solo una breve sosta dei nostri occhi a incrociare i loro.

Sono svanite non solo le opere ma anche i vip, le donne e gli uomini-immagine cui troupe televisive, altra presenza sintomatica, rivolgono microfoni e obiettivi. Le immagini sono state risucchiate nel gorgo dell’immagine. Ciò che resta è il vedere senza oggetto, il vedere portato a nudo: sguardi resi visibili al nostro sguardo, sotto una luce troppo intensa.


A un primo sguardo la scena pare abbastanza coerente, eppure abbiamo la sensazione che la bambina spensierata col cerchio è minacciata da un mondo che è sul punto di crollare lungo invisibili crepe o di scindersi in frammenti incoerenti. Anche qui un corpo solido approssimativamente isometrico – il vagone – serve a denunciare la convergenza degli edifici come effettiva distorsione. Oltre a ciò le prospettive dei due colonnati si negano tra di loro. Se si prende come base dell’organizzazione spaziale quella di sinistra che attesta la presenza dell’orizzonte verso l’alto, allora quello di destra viene a sfondare il terreno; nel caso opposto, l’orizzonte dovrebbe trovarsi, invisibile, in qualche punto al di sotto del centro del dipinto, e allora la strada in salita con il chiaro colonnato non è che un miraggio fittizio che guida la bambina verso un salto nel nulla.

Rudolf Arnheim su Melanconia e mistero d’una strada di Giorgio de Chirico (1914), Arte e percezione visiva (1954), trad. it. Milano, Feltrinelli, 1994, pp. 244-245.


The chasm where the eye finally has respite

Even if at first glance it may seem reasonable, it would be completely misleading to approach Antonio De Pascale's paintings, particularly those that make up the Rifrazioni series, believing them to be supported by representative, or rather illustrative, spontaneity, insofar as figures and settings are happily iconic, shaped by a lifelike and precise brush.
The descriptive nonchalance simulates indifference towards formal complications, gives the impression of wanting to be simply functional to the situation that is staged, to be enjoyed for the ability to stir the narrative tension, although condensed in shots that do not resolve. In some ways it is just like that: De Pascale is an illusionist, the creator of fascinating little theaters boxed in between the sky and the perspective wings - later on we will deal with the apocalyptic comedy that takes place inside them. Yet the representation is only what appears on the surface.

A more attentive eye is alerted to the lack of weight that undermines the figures. They are impregnated with a postcard-like, and for this very reason false, luminosity that floods everything. The image is emptied of it, brought back to the evanescence of a "larva": an insubstantial film no matter how detailed. The optical lucidity, the high definition of the details are nothing but a game of wandering, deviated apparitions: refractions, precisely. Catastrophe is not only the event of which the fiction has been set up, but, on a structural level, it is the collapse of the image on itself, its sinking, even in the sense of "deepening". The crisis of the image as an instrument to penetrate inside: this seems to me an appropriate key to reading De Pascale's art. Digging into images means looking for the bottom of their nature, that hidden mechanism that makes the mirage possible. However convincing the mirage may be - and the one in question is masterful - we must not forget that the image is an artifice.

What fascinates and requires investigation is that its operation is by no means transparent, as is that of linguistic artifice. The syntactic and semantic organization of the sentence has been decoded through the identification of its components, which in turn can be analyzed into progressively simpler sub-components. Roughly speaking, from the propositions constituting the period we pass to the logical functions, then from the single words to the morphemes inside them, and finally to the alphabet, that is the first, atomic material on which everything is built. The optical artifice of the image, of the icon, is on the contrary "illiterate", that is, it lacks an internal articulation that can be grasped with a linguistic method. In the ever elusive case history of being an image, we are most often dealing with complex and irreducible totalities, which has rightly been compared to bodies. Man has always responded to the fascination with icons by personalizing them, or even making them the object of idolatry - remember that "idol" derives from "eidolon", one of the two Greek terms for "image" (the other is "eikon", hence "icon"). It is evident that it is not painless to dissect a personified object, an organism perceived as having flesh and soul. To do so is not the same as disassembling it, but rather as violating it, or rather dismembering it. This is why we are careful not to tear up the photograph of a loved one, unless, in a fit of rage, we intend to strike him or her with such an act. It is worth giving some examples in this regard, which will serve as terms of comparison to understand the work of De Pascale. The first is décollage, a technique that has marked the work of artists such as Mimmo Rotella, François Dufrêne, Raymond Hains and Jacques Villeglé. It is no coincidence that its diffusion dates back to the 1950s and 1960s, at the same time as the exponential visual intensification that has led to define our society as a society of images. It is the image that the capitalist boom relied on to keep the mass of buyers excited through something more desirable than the very functionality of the commodity.

The décollage is a reverse collage, worked in removing, piercing the stratification of advertising images that wraps and supports the environment of consumerism. However, in the organic whole of the image, there is no combination of elements that can be engraved without tearing a tissue. Hence the aggressive and politically antagonistic aspect of tearing posters, which is in fact an offensive launched against the icons of desire. Décollage is tearing, flaying, maceration. At the same time, it is the wound that the image inflicts on its flesh as it escapes from stereotype. The image has escaped the mortification of the univocal message of advertising, it has regained its freedom, whatever the cost. At the same time, décollage, or rather dé-coll/age, is the term of choice also for Wolf Vostell, who acts not only on paper, like the others, but also on the image transmitted by television, the main instrument of mainstream communication. The intervention consists both in superimposing on the screen various objects with a profanatory function (such as barbed wire), and in acting directly on the reception of the electronic signal, disrupting its tuning. In common with Rotella and his companions is the violent, iconoclastic decomposition of the public image and its liberation from the dominant ideology.

The difference lies in the fact that Vostell’s attack aims at the genetic heart of images: by insinuating itself into the internal circuits, it corrupts the process that leads to the switching on of the pixels, which therefore give birth to wrongly born icons. From Vostell, to whom Nam June Paik should be added, also working with similar means, it is easy to arrive at a third example, which concerns the actuality of digital images, with a numerical matrix. It is still a question of putting into crisis the visual flux that incessantly illuminates our screens, adulterating it at the source. The artistic experimentation called “glitch” introduces small errors in the codification of images, which is spoiled, intrinsically distorted, shattered into crazy conformations. The bug uncovers the link between the apparition and the submerged computer work. It is the unveiling of the phantasmic nature of our visual habitat: a weak pressure is enough to disintegrate it, to make us find ourselves in front of the naked, incomprehensible traffic of data. De Pascale does not use new artistic techniques. He paints. And he does it in an imitative, naturalistic way. And yet, as we have said before, his art is deceptively traditional, and no less conceptual than what has been mentioned so far. For him, painting is not a return but a delay. Bearer of a slowness of ancient times, painting is the effective and intimate instrument to open a gap in the envelope of images, a tiny niche of resistance in which to try, for a moment, to take control. A slight and meditative diversion, which is the fleeting gain of an exhausting work. This does not mean uncovering the reality underneath Maya's veil: today, we certainly cannot believe in the separability between reality and representation, freedom and conditioning, the object and its advertising icon, identity and the flurry of selfies. Those that once could be considered opposite fronts, however uncertain their boundaries, are now definitively fused together in an unstoppable centrifuge (in all senses of the term). All that is left then is to give a barely destabilizing jolt to the spectacular flow of reality/representation. The chasm that repeats itself, beating and threatening, in all the paintings of the series is the narrative disturbance that contrasts with the indifference of the bystanders, but it is also the tripping of the visual spectacle on itself. The sinkhole is the pictorial transposition of the craters of décollage and glitch. It is no coincidence that the incident concerns what is perhaps the most emblematic form of today's ritual of seeing: the spaces of the immaculate and ephemeral stands of a fair, and in particular of a contemporary art fair, are lacerated. We are certain of this from the appearance of refined nonchalance that distinguishes most of the people who stay there, even if the artworks have inexplicably disappeared. That is the place where high society celebrates its intellectual and financial triumph in the name of the image raised to the heights of art: the architecture that combines the characteristics of the sanctuary and the stock exchange; the non-place, or rather the junkspace of plasterboard and air conditioning, that lands, always the same, in the most diverse contexts and with total indifference to those contexts.

All this, as we well know, implies an alarming other side of the coin, which De Pascale brings to coexist with the first one in disregard of any safety distance and convenience: elbow to elbow with the kind humanity, there are soldiers in war gear, which manifest the violent emergencies generated by the system. Next to human beings, there are various animal species and incongruous objects, such as hanging clothes. Each scene is a painted décollage, hence the mutual irreconcilability of the figures. These have been extracted from the archive that the artist has collected over time and channeled into a perverse, enigmatic "all on track". Every single figure is a fragment extrapolated from media contents that we are not allowed to recognize, so that every visual obviousness is interrupted. And yet, thanks to the pictorial miracle, the accumulation becomes an organism, the comedy is plausible. The contradiction between possible and impossible enters stalemate. Note that the stalemate, the putting into "madness", has replaced the goal of freedom. After the opposing fronts have failed, one can only pursue a condition of oblique, depotentiated freedom, which is not an ideological drive but only a temporary induced blackout of conditioning. The stalemate of contradiction also concerns the figures' intrinsic luminosity. On the one hand, it is the best condition of visibility, never satiated with details; on the other hand, it is the paroxysm of visibility pushed to the breaking point, to the chasm that tears a zone of shadow where the eye finally has respite. The characters are dedicated to actions related to seeing, or rather to the malaise of seeing. In addition to the spectators of the void left by the absence of artworks, we see figures pointing with binoculars to an invisible horizon, others who observe through the screen of a cell phone, others who wander around blindfolded. Finally, there is a blind man with a white cane and a dog. The animals are the only ones who know how to notice us, observers from outside the painting: images that observe us, who perhaps want something from us, to quote William J.T. Mitchell, even if only a brief pause of our eyes to meet theirs. Not only artworks have vanished, but also the VIPs, the image-women and men to whom television crews, another symptomatic presence, turn their microphones and lenses. The images have been sucked into the whirlpool of the image. What remains is seeing without an object, seeing stripped bare: gazes made visible to our gaze, under an excessively intense light.

At first glance the scene looks solid enough, and yet we feel that the unconcerned girl with the hoop is endangered by a world about to crack along invisible seams or to drift apart in incoherent pieces. Again a roughly isometric solid, the wagon, denounces the convergences of the buildings as actual distortions. Furthermore, the perspectives of the two colonnades negate each other. If the one to the left, which defines the horizon as lying high up, is taken as the basis of the spatial organization, the one to the right pierces the ground. Under the opposite condition the horizon lies invisibly somewhere below the center of the picture, and the rising street with the bright colonnade is only a treacherous mirage guiding the child to a plunge into nothingness.
Rudolf Arnheim on Melancholy and Mystery of a Street by Giorgio de Chirico (1914), Art and Visual Perception. A Psychology of the Creative Eye (1954), University of California Press, Berkeley and Los Angeles, 1974, pp. 300-301.