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Antonio De Pascale _ Guido Bartorelli 

Juliet art magazine n°108 giugno 2002
Verso Arts et Lettres n°49 avril 2008

Ciò che da sempre mi ha impressionato di Antonio De Pascale e del suo lavoro è la caparbietà con cui si è dedicato ad una delle questioni più urgenti che coinvolgono gli artisti di questi tempi: qual è il loro ruolo nella produzione della miriade sfolgorante di immagini che si impongono quotidianamente al nostro sguardo? Senza perdersi in diversivi di poco conto, De Pascale punta dritto al cuore di una tematica che mi sento di definire epocale. E’ peculiarità dell’epoca attuale, infatti, la perdita da parte dell’artista del quasi esclusivo controllo che un tempo deteneva sulla creatività visiva. E’ un fatto che solo una percentuale irrilevante delle icone che fruiamo la dobbiamo agli artisti. Chi davvero ne è responsabile sono piuttosto i cosiddetti creativi – grafici, pubblicitari, art director…- che lavorano al sevizio delle aziende. Questi non sono la stessa cosa degli artisti: provengono da una formazione differente, frequentano differenti ambiti professionali e ancor più differenti sono le rispettive finalità. Il problema più grande -  per gli artisti, non certo per la collettività – è che i creativi non sono meno bravi, tutt’altro: forti di una schiacciante supremazia economica, hanno sviluppato una maturità espressiva indiscutibile.Quante immagini mass-mediali ci catturano movendo i nostri sensi e intelletto con enorme efficacia, godendo inoltre della visibilità senza barriere garantita dalla diffusione mass-mediale? Un tempo, lo ripeto, ciò era prerogativa degli artisti, oggi essi vedono i loro sforzi bruciati da uno spot pubblicitario. Perfettamente consapevole della follia del gesto, De Pascale sfida i colossi della produzione d’ immagine con la propria manualità attrezzata soltanto di matita e pennello. Lentamente, egli replica alcuni frammenti dell’immaginario commercial-televisivo  e intanto questo è già corso via verso centomila altre visioni. E’ come la gara fra la lepre e la tartaruga. Con l’ulteriore svantaggio che la lepre, questa volta, non perde tempo – anzi nemmeno sa che qualcuno da lontano segue i suoi passi – e continua a sfrecciare a velocità insostenibile. Ovviamente la tartaruga non può che arrivare ultima. Ma proprio qui, nell’arrivare ultima o, magari, nel non arrivare mai, che risiede la sua identità. L’artista, sembra dirci De Pascale, trova il suo ruolo proprio nell’essere irrimediabilmente fuori dalla competizione, senza niente da vincere o da perdere. Da qui può partire un atteggiamento disinteressato e riflessivo e, sotto sotto, terribilmente corrosivo. E’ fonte di ironia e autentica comicità il  tentare di rifare un mondo di icone alieno, nei cui confronti si soffre una condizione di insanabile handicap o, come la chiama De Pascale, di “sindrome di Zelig”: vi ricordate il film di Woody Allen? In effetti, durante il processo di imitazione, si presentano inciampi, capitano incongruità ed errori. E alla fine le cose non sono più uguali a se stesse.  


Antonio De Pascale _ Guido Bartorelli 

Juliet art magazine n°108 june 2002
Verso Arts et Lettres n°49 april 2008

The feature of Antonio De Pascale and his work that has always struck me is  his  determination in tackling one of the most  crucial issues  artists have to face today, namely:  what is their role in the production of the dazzling  myriad of images that  strike our gaze every day? Without wasting time and effort on minor matters, De Pascale  aims directy at the very heart of  a theme which I would describe as epoch-making. It is in fact a distinctive feature of the present age the artists’ loss of the almost exclusive control on visual creativity which was their prerogative in the past.  Nowadays only a flimsy percentage of  the icons which strike our gaze is made by artists.  They are made by  the so-called creative people – designers,  advertisers, art directors who work for business companies. They are not the same as artists: they have had a different education and training, work in different professional sectors and their respective aims are even more different. The greatest problem – for artists, not for the public at large – is that creative professionals are not less  brilliant,  quite the opposite. Enjoying  an overwhelming economic supremacy, they have reached an unquestionable maturity of their expressive means. How many mass-media images capture our senses and intellect very effectively,  enjoying at the same time the unbounded visibility granted by mass media diffusion? Once, as I said before,  this was the artists’ prerogative; today they see their efforts frustrated by  a commercial.  Perfectly aware  that his gesture is quixotic, De Pascale  challenges the image-producing corporations with his craftsmanship and the mere help of pencil and brush. He slowly reproduces some fragments of  the tv commercial imagery which in the meantime has already  produced a hundred thousand other visions. It is like the competition between the hare and the turtle with the further handicap that this time the hare does not waste time – it is not even aware that somebody is following on its steps – and darts on at an unmatchable speed. The turtle is obviously bound to  finish last.. But the core of its identity lies in this very fact, of coming last or never even finishing the race. De Pascale seems to tell us that the artist finds his role precisely in  keeping himself outside the competiton with nothing to win or lose.  This is the starting point for an unbiassed and reflexive attitude which may also be terribly caustic.  The attempt of re-making an alien world of icons towards which we suffer  from an incurable condition of handicap or, in De Pascale’s words, of the Zelig syndrome”  - do you remember Woody Allen’s film? - is a real source of irony and comedy. It is in the very process of imitation that  obstables are met and incongruences and errors take place.  And in the end things are no longer the same.